Segretariato Missioni Estere Cappuccini Puglia Onlus

Nenshat: La luce in fondo al tunnel

Zeliko Tadic (a sx) e Antonio Di Loreto (al centro) mentre parlano con p. Bonaventura (a dx)

NENSHAT - In fondo ad una strada sterrata, dove l’odore di stalla ed il profumo della vegetazione spontanea riempiono i polmoni, sorge un’abitazione con attigua chiesetta oltre un cancello grigio a delimitare la proprietà privata della residenza. La salita conduce all’ingresso di una casa famiglia per tossicodipendenti finanziata dall’associazione italiana «Giovanni XXIII». Una degna struttura di accoglienza, frutto di una donazione di don Antonio Sciarra, sacerdote-missionario che da queste parti ha lasciato più di un segno. Un simbolo che opera sul territorio di concerto con le quattro case di Skutari (tre per bambini poveri e una per famiglie sotto vendetta) ed una di Tirana destinata ai barboni.

Enrico Cavicchi, responsabile ferrarese della struttura, è fuori. I primi ad avvicinarsi sono Zeljko Tadic e Antonio Di Loreto. A loro, l’onere di «gestire» otto persone (tutti di sesso maschile) con la missione di farli uscire dal tunnel della droga e dell’alcool. Lo stesso percorso che ha caratterizzato la rinascita  alla vita del giovane bosniaco e dell’ex elettricista quarantenne originario di Alba Adriatica. Il primo, nella casa famiglia di Vrgorac. Il secondo, in quel di Cesenatico.
«Non dimentico chi sono stato - le prime parole del racconto di Zeljko - e per questo la mia missione in Albania consiste nel testimoniare e nell’offrire la speranza che la battaglia contro la droga si può vincere». Restano le ferite di una storia dolorosa: «Terminato il programma di recupero terapeutico di tre anni e mezzo, dopo poco più di un paio d’anni mi hanno portato in galera per un vecchio processo a Mostar». Dal pianto, il seme della gioia e del riscatto: «Nella cella della prigione - prosegue il giovane bosniaco di fede cattolica - ho capito che qualcosa in me stava cambiando. Lì dentro circolava eroina. Ma non mi interessava più. La forza mi è arrivata dalla preghiera. Gli allora responsabili della comunità di recupero mi sono stati molto vicini. Ma la svolta è giunta da Dio. Mi sono affidato al Signore e ho sentito come una mano che mi afferrasse. Sì, nel mio cammino di recupero c’è la mano di Dio. Ne sono sicuro».
Terminata la reclusione, inizia il difficile: «Ho trascorso un altro anno in comunità per un periodo di prova». La luce in fondo al tunnel: «A quel punto, circa due anni fa, è giunta la proposta di inaugurare una comunità in Albania affidandomi la responsabilità di curare chi ne ha bisogno. Si tratta di tossicodipendenti da eroina, alcuni purtroppo di rientro, e alcolizzati. D’intesa con le istituzioni sanitarie locali, sui primi si interviene somministrando metadone. Il programma comprende fasi di lavoro insieme ad un esperto agrario e soprattutto momenti di preghiera. Si sperimenta una vita comunitaria imparando le regole della convivenza improntate al dialogo e all’apertura verso l’altro».
Un amore ricevuto, seminato e presto anche moltiplicato: «Un anno fa - la conclusione col sorriso sulle labbra - ho incontrato Semka, ragazza 28enne di Mostar e volontaria nella nostra casa di Skutari. Contiamo si sposarci tra un anno».

Pierpaolo Paterno

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